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La teoria del bello ideale domina la discussione estetica nella seconda metà del Settecento. Il suo centro di irradiazione è l'Italia, e in particolare Roma, dove si incontrano Winckelmann e Mengs; ma essa finirà per orientare tutto il dibattito del Neoclassicismo europeo. Esteban de Arteaga (1747-1799), spagnolo di nascita ma italiano per studi e cultura, ne dà in questo trattato pubblicato nel 1789 l'esposizione di gran lunga più metodica e completa. Se Winckelmann si era limitato a brevi accenni illuminanti, e Mengs aveva avuto di mira solo l'applicazione del principio dell'ideale alle arti figurative, Arteaga vuole costruire un sistema compiuto, che esamini non solo il ruolo dell'ideale nella pittura e nella scultura ma lo estenda alla poesia, alla musica, al teatro. Si propone di mostrare la compatibilità tra il principio della idealizzazione e quello tradizionale della imitazione della natura, distinta dalla mera illusione e dalla copia, e si spinge a teorizzare la possibilità della rappresentazione del brutto. In questo testo, incredibilmente a lungo dimenticato, è possibile invece cogliere l'esito di molti dei dibattiti centrali dell'estetica settecentesca, in un crocevia ove confluiscono Batteux e Hutcheson, Mendelssohn e Diderot, e che apre alle grandi problematiche impegnate dalla Modernità. Proprio alle soglie della rivoluzione romantica, che metterà in crisi la teoria della bellezza ideale (sia pure nutrendosene più di quanto comunemente si immagina), questo classico volume di Arteaga - che qui si presenta per la prima volta in lingua italiana, puntualmente curato da Elena Carpi ed arricchito da una limpida introduzione di Paolo D'Angelo - ne traccia un bilancio lucido ed efficace: ancora oggi lo strumento migliore per chi voglia comprenderne il significato e i problemi.